Matteo Clementi

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Tratti

testo critico di Gianluca Marziani
























































LA FERITA DEL QUOTIDIANO
Gianluca Marziani


Cinepresa verso il mondo troppo reale, montaggio di immagini convulse e compulsive. Una sequenza ipercinetica dalla grana sporca, pixel e bande in evidenza, grida e rumori assordanti…

Iraq, Palestina, Afghanistan, Israele, Pakistan, Ossezia, Nigeria, Colombia, Serbia e Montenegro, Cecenia, Albania, Kurdistan, Algeria… luoghi dove la carne sussulta, si spappola, esplode oltre la gravità scheletrica del corpo. Laggiù/lassù il presente dichiara la regola mai scritta del terrore violento, le guerre debordano oltre le consuetudini militaresche della trincea: e tutto, improvviso e poco improvvisato, diventa campo di battaglia. Il quotidiano si tramuta nella geografia sacrificale delle carni abrase, dissezionate, bruciate, dilaniate. Sale in aria un odore acre che gonfia le narici e scende in gola come acido gelido. Auscultiamo posti dove si muore con la medesima "normalità" che abbraccia l'ultimo respiro libero prima del fatale destino. Un breve attimo e il rosso colora l'intera atmosfera, rendendo impossibile la visione dilungata del futuro. L'olio pittorico del reale impressiona la pellicola recettiva degli sguardi: ed è una realtà dai rossi fangosi, carichi di sangue appiccicoso, densi come i lamenti acuminati dentro i mattatoi dalle piastrelle bianche.

Cinepresa che si richiude verso il monitor del computer. Le parole scivolano come mercurio rilassato sul bianco del foglio in Word. Il sottoscritto torna tra le "sicurezze" del racconto, lontano dal disagio di un mondo inquieto…

L'universo della violenza circonda il nostro quotidiano e chiede una posizione chiara, vigile, eticamente cosciente. A noi, giorno per giorno, il dilemma se intraprendere o meno una resistenza attiva. A noi, minuto dopo minuto, la chance dell'amore come vera arma di chi urla il rosso della passione, del cuore pulsante, del sangue dentro le vene.

Cinepresa verso il primo piano sui quadri di Matteo Clementi. L'obiettivo carezza le opere, sfiora la materia densa, i gesti forti, la pienezza atmosferica. Dal computer alla pittura per un passaggio obbligato che porta la vita dentro ogni frangente creativo…

Perché parlare di guerra davanti ai ritratti di Matteo Clementi? Innanzitutto perché il suo rosso somiglia ai toni sanguigni delle carni che soffrono. Poi perché le sue colature sgocciolano come cascate da ferite urlanti. Infine perché i suoi sconosciuti sembrano aver registrato qualcosa di molto duro, forse intollerabile da sopportare. Adesso appaiono immobili in un vuoto indefinito, galleggiano su fondali senza orizzonte. Sono soggetti neutri in cui proiettare le paure, i dilemmi, le tensioni ma anche la resistenza feroce di chi non abbassa lo sguardo davanti al male. In loro c'è qualcosa di fortemente compiuto, come se l'anomalia del mondo esterno si comprimesse dentro la geografia dello sguardo.

Cinepresa che torna sul computer mentre le riflessioni procedono oltre i quadri, oltre la loro evidenza formale. Le apparenze interiori del sottoscritto sembrano calme come un mare estivo. Eppure qualcosa accade in profondità, i fondali si agitano, le maree salgono…

Quei ritratti non nascono soltanto dalla componente astratta del gesto. Né sono puri spaccati di colore dove pieni e vuoti dimensionano la forma. Qui gesto e colore si fondono con la stessa empatia dell'acqua dentro altra acqua. La materia amplifica così il controllo gestuale e la vitalità catartica dei colori prescelti. Il rosso domina la scena, prende il sopravvento e crea una tensione crescente. Finchè, come decompressioni necessarie, ecco altre tinte dilaganti, frutto di stadi emotivi che crescono e diminuiscono, dalle parti di blu e verdi che somigliano al mare, al cielo, allo spazio infinito. E poi, tornando ai rossi, vi compaiono strani momenti cromatici, improvvisi rallentamenti verso il rosa e il viola, accensioni lontane di bianco pannoso. La pittura, insomma, come radar delle variabili sentimentali, un viaggio del colore nelle emozioni davanti al mondo lontano, al mondo vicino, al mondo vicinissimo. Impasti che, come le emozioni necessarie, evocano cibi primordiali dove l'energia comunica coi cinque sensi in una strana polifonia pittorica.

Cinepresa verso un mondo che speriamo ancora reale, montaggio di immagini che rallentano in maniera graduale. Una sequenza di stacchi immobili dalla grana colante, rumori ormai scomparsi, luoghi domestici per assicurare un'apparenza di tranquillità…

L'occhio che ha visto la violenza sceglie il silenzio casalingo, la vitalità morbida del quotidiano da interni. Entra nel ritmo acustico di corpi normali, facce normali, storie normali. Gli sconosciuti di Clementi sono persone come noi che ribadiscono la propria verticalità attenta, il senso della vita che scorre davanti agli occhi sensibili. Chissà, forse non hanno scovato alcuna violenza benchè il nostro pensiero immagini un maligno come condizione della loro fermezza. Magari stiamo ipotizzando violenze che l'artista non aveva neanche immaginato. Oppure, intuitivi e "fortunati", tocchiamo la lunghezza d'onda che guidava la mano pittorica, quando il gesto voleva dimensionare, chissà, la condizione di un disagio interiore. La qualità di Clementi sta nel dubbio persistente che sentiamo davanti ad ogni quadro: dramma o ipnosi, tragedia o ascolto, paura o vuoto, ansia o stanchezza, tensione o apatia… lo sguardo libero nuota nel guado tra divergenze e contrasti, gli opposti si tramutano nella costituzione senza regole della libertà interiore.

La nudità neutralizzata si sospende nel vuoto della superficie. La pelle degli sconosciuti ascolta i nostri sguardi. Le colature piangono i mali di un mondo mai troppo lontano. Il colore si prepara al sacrificio necessario. Dentro i quadri di Clementi non esistono più attimi normali (nella loro normalità) ma solamente gesti assoluti (nella loro normalità), unici nel fermarsi lungo il tempo anomalo del dipingere.

La ferita del quotidiano sanguina dentro i nostri occhi. Le stanze domestiche in cui ci "rifugiamo", lontani ma vicini alle urla del sacrificio, sono il teatro mediatico di una battaglia in differita, un registratore del caos che cambia la percezione del corpo intero, dei singoli gesti, di ogni sguardo. Emozioni e carne si fondono dietro i volti degli sconosciuti di Matteo Clementi.

Cinepresa di nuovo verso il mondo troppo reale. Si scelgono inquadrature dove l'immagine ferisce e riapre cicatrici mai definitive. Gli occhi vedono i colori del male, il cuore batte sopra le colature rosse, la mano tocca la materia che ribolle…













































Matteo Clementi "I don't need you" 2004
olio su tela cm. 180 x 180











Matteo Clementi "Coppia instabile 1" 2004
olio su tela cm. 110 x 110












Matteo Clementi "Occidentalizzazione 2" 2004
olio su tela cm. 150 x 150











Matteo Clementi "Mi!" 2004
olio su tela cm. 60 x 60












LA MOSTRA DI MATTEO CLEMENTI CONTINUA NELLA SECONDA SALA




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