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Giovanni Fioretto "TNM+16" 2002
acrilico su tela cm 90x90 |
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Giovanni Fioretto "TNM+17" 2002
acrilico su tela cm 90x90 |
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Giovanni Fioretto "TNM+18" 2002
acrilico su tela cm 90x90 |
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Giovanni Fioretto "TNM+19" 2002
acrilico su tela cm 80x80 |
Una pittura che convive con la morte: il
medium è l’immagine della carne
“…Anche nel campo dell’arte in
questi ultimi
anni si è fatto un gran parlare
del corpo.
Si è detto della sua specie come
oggetto
martoriato, come immagine sessuale
dell’organico
e dell’inorganico, come organo
tra gli organi
e come organismo senza organi,
come anatomia,
come dimensione pittorica, costumistaa
etc….
Ma non si è detto cos’è realmente
il corpo
nel “nostro adesso”, cos’è realmente
la carne,
come si muove la nostra sensibilità
in essa,
come era animata nella storia
e come potrà
essere animata grazie anche alla
tecnologia
nel futuro. La pittura, pur non
essendo molto
attrezzata per coprire queste
risposte a
livello immaginologico, si offre
come un
buon tavolo anatomico su cui
sezionare le
forme e le topografie dello sguardo.
Ecco
che su questo tavolo giungono
pezzi di corpo,
profili, congiunzioni di membra
assemblate
e coniugate nella loro potenza.
Così come Bataille, per cominciare
Les Larmes
d’Eros, si mette a scrivere davanti
ai documenti
fotografici del supplizio cinese,
giungendo
alla conclusione che i singulti
del campo
sacrificale spesso si confondono
con le digressioni
interminabili dell’eros e del
sadismo, così
noi - facendoci aiutare dalle
parole del
poeta Paul Verlaine “La chair
est sainte!
Il faut qu’on la vénère” - scopriamo
l’intensità
dei pezzi di corpo provenienti
da una figura
o da forme anatomiche disperse
e irradianti.
Leggendo i due testi che Michel
Leiris aveva
dedicato al pittore inglese Francis
Bacon,
notiamo una differenza definitiva
tra la
nozione introdotta da Antonin
Artaud sur
la vérité cruauté e una pittura
della vérité
criante. Fra l’urlo e la crudeltà
non dovrebbe
esserci molta differenza, pensando
soprattutto
al fatto che queste due sensibilità
sono
state allevate in atmosfere abbastanza
simili.
Ma una sottile diversità resta
e si fa avanti
tra l’azione del guardare un
corpo su un
tavolo anatomico e la figura
della carne
che si rinviene in un contesto
pittorico
usato per scoprirla. Rispetto
alla crudeltà
- e quindi alla sapienza scenica
in cui la
carne appare dilaniata, come
nelle azioni
di Herman Nitsch - la pittura
urlante vista
da Leiris è qualcosa che attiene
ad una voce
sorda, una voce silenziosa che
si nasconde
nei movimenti corporali, nel
figurale (come
lo chiama Gilles Deleuze). Partendo
da questa
sensazione di silenzio, o meglio
di urlo
soffocato, nei quadri di Fioretto
la carne
trova un’altra immagine, un’altra
predisposizione
a se stessa. Essa rimane oggetto
vivo e luminoso
perché, pur scaturendo da un
passaggio illustrativo
di un pezzo di corpo morto, attraverso
l’energia
pittorica conserva un’entità
luminosa, che
simbolicamente indica un’impercettibile
e
trasparente conservazione della
vita. L’idea
di Fioretto è quella di riportare
sulla tela
la storia di una carne avanzata
perché, traducendo
il vecchio detto napoletano “simme
carne
e maciello”, usato molto bene
nel teatro
di Leo De Berardinis, egli dice
che la nostra
presunzione ci illude di essere
ormai immortali,
e non ci rendiamo conto che siamo
tutti il
riflesso simbolico di bocconcini
di carne,
che spesso non hanno neanche
la possibilità
e la fortuna di essere adibiti
alle migliori
confezioni di cibo per la sopravvivenza.
Dopo la mappatura del genoma,
le grandi scoperte
della genetica, l’avvento del
nuovo rinascimento
scientifico che sfocia nelle
potenze della
comunicazione, del virtuale e
del riproducibile,
gli uomini sentono meno la perdita
della
carne, sono rassicurati dalla
prolificazione
infinita e sperano che le condizioni
di pro-creatività
illimitata siano un nuovo orizzonte
che abbatte
qualsiasi limite. Cosa può fare,
dunque,
chi si muove nella minorità della
pittura?
Forse può sezionare quell’immagine
urlante
e silenziosa, che si pone dopo
la disperazione
del corpo senza organi ricostruito
da Bacon.
Fioretto esegue così il suo mandato;
il tutto
parte sempre da una superficie
bianca, i
primi gesti avvengono al centro
della tela,
aiutati da un pennello grande
e dalla trama
larga. Le pennellate ricordano
la pittura
gestuale orientale. Esse all’inizio
sfiorano
l’informale puro ed è da qui
che poi inizia
il vero procedimento. Il pittore
ad ognuna
di queste pennellate dedica un
tempo che
sprofonda nel dettaglio. Tutti
i gesti vengono
contornati e, a poco a poco,
i pezzi di luce
chiara e informe che erano stati
scaricati
in un primo momento sulla tela
vengono lavorati
anatomicamente, cercando di tirare
fuori
dal dettaglio un profilo, un’anca,
un braccio,
mezzo collo, un naso ed altri
particolari
di un corpo. Questi blocchi cromatici,
che
ben presto prendono le sembianze
di masse
carnine, ruotano nello spazio
vuoto intorno
a se stesse, sono lo specchio
di se stesse
e si muovono in una tensione
che riflette
la loro stessa energia. In alcuni
dei lavori,
il fruitore può, inoltre, intravedere
dei
pezzi pittorici a lato della
massa che, come
finestre, mostrano un residuo
di lavorazione
cromatica proveniente da una
delle stratificazioni
precedenti del processo esecutivo.
È una
maniera leggera e collaudata
di direzionare
la prospettiva dello sguardo
e dare sostanza
al dettaglio senza rinunciare
alle sottili
memorie che si nascondono sul
fondo del quadro.
A differenza del corpo dissestato
di Bacon,
esse partono dalla ricostruzione
di una massa
che per l’artista contiene una
doppia valenza:
negativa e positiva. Infatti,
Fioretto definisce
questi lavori ipostasi ed ectopie,
e li contrassegna
con la sigla TNM ed un numero
progressivo.
Le ipostasi per loro cultura
richiamano a
riferimenti filosofici. Il neoplatonismo
fu una forma di monismo idealistico,
nel
quale il concetto di uno perfetto
e forse
inconoscibile era ritenuto l’idea
ultima
dell’universo. Secondo i neoplatonici
le
ipostasi erano delle irradiazioni
e delle
emanazioni dell’uno, tra cui
la più lontana
tra tutte è il cosiddetto nous
(intelletto
puro). Plotino ebbe a lavorare
sull’idea
dell’emanazione, egli disse che
a partire
dall’uno si estendevano diverse
sostanze
e livelli di realtà. Secondo
questi la luce
è un’emanazione che si espande
da una fonte
luminosa inesauribile. Filone
e Plotino concepiscono,
dunque, le forme ipostatiche
come logos.
Cirillo ebbe a rivendicare la
“madre di Dio”
come unione intima e ipostatica
con la natura
divina; Cristo si sarebbe dunque
incarnato
tramite una compenetrazione delle
due nature.
Viceversa la parola ectopia suona
come una
vera e propria sigla, perché
fondamentalmente
essa significa molto poco, quasi
niente.
Invece, il monogramma TNM, che
accompagna
questi lavori di Fioretto, è
ripreso dalla
terminologia medica; esso in
campo oncologico
indica la specificità e l’entità
di una massa
tumorale. In particolare la T
sta proprio
per tumore, la N per linfonodi
regionali
e la M per metastasi.
Messe insieme, simbolicamente,
le tre definizioni
ipostasi, ectopia e TNM selezionano
una particolare
idea dell’oggetto artistico,
che in questo
caso si presenta al centro della
tela come
una massa cromatica dotata dei
suoi punti
di luce, dei suoi pieni e dei
suoi vuoti.
L’immagine della massa appare
come un oggetto
staccato dal corpo e che, contemporaneamente,
ruota sullo sfondo monocromatico
della tela.
Ma la superficie colorata da
cui esso si
diparte appare anche come un
nuovo corpo,
forse il corpo unico che l’arte
può mettere
a disposizione dello sguardo:
la tela. Il
pittore riportando la carne sul
proprio “tavolo
anatomico” realizza un atteggiamento
minoritario
della pittura. Forse perché la
pittura, detto
proprio alla Deleuze e Guattari,
è solo minorità.
Il pittore parte dalla riproduzione
di un’immagine
“maligna” per ritrovare in essa
dei punti
di vuoto e di pieno. Il pieno
è costituito
dalla luce e il vuoto è alluso
attraverso
la minaccia della massa tumorale
che si nasconde
nell’immagine.
Si è sempre detto che l’artista
facendo l’opera
non può fare a meno di parlare
anche della
condizione della sua disciplina.
Fare l’arte
indica di per sé uno screening
sullo stato
dell’arte. Dunque, Fioretto è
consapevole
che le isotopie, dopo il contributo
della
fotografia ologrammatica, avrebbero
potuto
dare risultati più efficaci e
spettacolari.
La simulazione del TNM, con l’ausilio
delle
tecnologie di ricostruzione digitale,
sarebbe
stata più vicina ad una riproduzione
scientifica.
Insomma, il pittore sa di essere
stato superato
dalla tecnica, è consapevole
del fatto che
essa ha messo in discussione
il valore generale
dell’opera e la figura centralizzante
del
suo lavoro e spesso sa di essere
un piccolo
ed irriconoscibile artigiano
(filosofo).
Ma è proprio in questa condizione
estrema
di minorità, e quasi di in-potenza,
che si
trattiene lo spazio migliore
per costruirsi
una teologia della liberazione,
ovvero una
libertà conquistata con l’uso
di uno strumento
che è fuori dal tempo tecnologico
presente,
ma che di questo jetzt-zeit tenta
di sviluppare
l’indomita percezione di una
dissociazione
selvaggia. Nelle emanazioni di
Fioretto,
pittoricamente, il digitale è
comunque considerato
ed ha funzione di specularità.
Ma tale resa
non basta a definire l’accadimento
visivo
della massa tumorale, perché
essa è più forte
e di per sé trasporta un’immagine
che anche
in una semplice riproduzione
pittorica riesce
a conservare il suo impatto.
Ho più volte detto a Fioretto
che i lavori
da me preferiti sono le ipostasi
TNM+4, TNM+6,
oppureTNM+7, TNM+8 e TNM+9. In
queste pitture
la massa si avvicina maggiormente
ad un apice
di organicità/inorganicità, e
non si distinguono
più nasi, dentiere, profili,
bocche etc…,
prevalentemente la quantità di
materia trattiene
in forma energetica la sostanza
della sua
emanazione e della sua carnivora
diramazione
tumorale. Risultano, poi, particolarmente
curiose anche le sequenze TNM+11,
TNM+12,
TNM+13, TNM+14, TNM+15 e TNM+16.
Anzi scavando
ancora oltre all’interno di questa
successione,
il TNM+12 ha raggiunto una sinteticità,
un’asciuttezza
ed una tensione interiore di
gran lunga più
intense. Qui il colore e il collegamento
sinuoso del segno, spostandosi
verso la figura
rigorosamente contornata, giungono
ad una
omogeneità e ad una forma armonica
forte,
sfiorando il limite della plasticità
tensionale.
Quest’immagine non prende le
mosse dalla
mistura carnina dosata molti
anni fa da Mattia
Moreni, ma si muove in un rapporto
di colore
e forma che addensa la massa
corporale, l’alleggerisce
nell’effetto immagine, la riporta
sottilmente
al dettaglio ambiguo tra il segno
fisico
e la dimensione psichica che
evoca un al
di là della corporalità stessa,
ciò che potremmo
chiamare la persistente corporalità
del male.
È inevitabile che chi guarda
queste sembianze
si ponga il problema della metastasi
dell’immagine
stessa. Nella nostra società
dello shopping,
la rappresentazione è ormai incancrenita;
il procedimento che presuppone
e che realizza
lo stato della sua forma comunicativa
è metastatico
e metastasico. Il pittore agisce
nella minorità
per far apparire in maniera più
evidente
la contraddizione. L’immagine
è inghiottita
dalla sua stessa massa tumorale:
essa si
crea e si distrugge contemporaneamente,
in
se stessa trova il vuoto e il
pieno per autocrearsi
ed autodistruggersi. Forse è
questo il metodo
sottile e nascosto che ogni forma
di comunicazione
sfrutta per tenersi a galla nel
tempo presente.
Non ci può essere solo un aspetto
positivo
o solo un aspetto negativo in
quest’immagine.
È come se l’emanazione divina
dell’ipostasi
si confondesse con l’alterità
visionaria
della massa tumorale. Bene e
male si espandono
e si concentrano organicamente
nella forma
dell’immagine.
Cosa rimane al pittore, visto
che la sua
azione è tutta concentrata sulla
mediazione
della tela. Diciamo che egli,
come i mistici
che erano lontani dalle ferree
regole ecclesiastiche,
contempla e invita a guardare
al consumo
della carne tenendosi lontani
dall’usarla
e dal mangiarla. La carne è composta
principalmente
di fibre muscolari con una quantità
variabile
di grassi e di tessuto connettivo;
il quadro,
invece, di questa concretezza
riproduce solo
l’immagine e spesso solo l’involucro,
facendo
sparire i dettagli, la striatura
delle fibre
e la porosità dei tessuti. Il
pittore spronato
dal dono della sintesi, riduce,
diluisce
in un simbolo i frammenti di
vita che si
legano al doppio filo dell’energia
e della
morte. Di essi rimane soltanto
un ambiguo
agente visivo che però sulla
nostra percezione,
nel dubbio di non aver capito
esattamente
ciò che ci troviamo di fronte,
agisce come
quel gonfiore esasperato che
si produce sul
nostro corpo quando siamo feriti
da un’ape
mellifera e la sua arma resta
incagliata
nella carne di noi vittime del
voyeurismo
globale”.
Gabriele Perretta
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Giovanni Fioretto "TNM +20" 2002
acrilico su tela cm 80X80 |
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Giovanni Fioretto "TNM - LET+0"
2002
acrilico su tela cm 80X80 |
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Giovanni Fioretto "LET+1" 2002
acrilico su tela cm 80X70 |
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Giovanni Fioretto " LET+2 " 2002
acrilico su tela cm 80X70 |
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